Broni Nugola (ricordi)

 

   

La casa era vetusta, ma dentro, oltre ai miei nonni paterni, aveva i lumi ad olio.......

E fuori, alla portata dei miei sassi, i binari della ferrovia.

 

ed inizia così questo tentativo di tuffo nel mio passato. Operazione consueta e cara al CaroDario che proverò ad imitare. Ma senza la sua nostalgia e bravura. No, io rifuggo dalle nostalgie. Io m’incazzo per il passato finito male, questo si, ed il mio rimuginio sugli episodi negativi diventa eterno, eterno ruminare di un bolo alimentare per me impossibile da digerire. Come i rimorsi. Ma tutto quanto riguarda quel passato buono, finito bene, non mi vede nostalgico, ma solo grato di averlo vissuto. E punto e a capo.

 

Broni (Pv)

La casa si ergeva a fatica sul lato stretto di un lungo cortile, quello che allora si definiva aia.

Ne avevo viste di aie, ed il ricordo indugia su donne sudate mentre battevano il grano, la cui pula andava fermandosi sui colli, sulle scollature e sull’incavo delle ginocchia. Gli uomini, col fazzoletto al collo a fermare il sudore, appoggiati al manico del forcone, bevevano vino da una bottiglia impagliata di salice tenendola per l’apposito anello.

I bambini si rincorrevano, strillando eccitati nella confusione dell’avvenimento che si ripeteva una volta l’anno. Ma nel momento migliore, quando l’estate prorompeva con i suoi odori di raggiunta maturità, esplosione d’ormoni e feromoni vegetali e non. E le scuole finivano.

L’aia riviveva un momento di splendore ed animazione anche quando le scuole riprendevano. Questa volta era l’aspro odor dei vini che l’anime va a rallegrar… e questa volta le donne erano chine sul catino dove, quasi eterne Maddalene, s’accingevano al lavaggio dei piedi ai loro uomini in procinto di salire nelle bigonce stracolme d’uva. Ricordo vivamente il leggero solletico degli acini spappolati e freddi che sgusciavano tra le dita dei miei piedi piccoli.

A volte qualche bambino veniva premiato….

 

Tre stanze su tre piani. Si accedeva alla prima direttamente dal terreno, senza scalini, e le scarpe lasciavano impronte di terra e d’erba comunque poco visibili alla luce dell’unica finestra.

Era piccola, con un letto ad una piazza, forse un divano a destra, una credenza di fronte, una grossa stufa a sinistra, un tavolo e quattro sedie al centro con la lucerna di vetro verdino che sovrastava il tutto. Attorno solo lo spazio dove mettere i piedi.

Un vano dava su un piccolo retro che faceva da cantina e da dove una scala di legno grezzo e polveroso, malsicura, portava alla camera da letto.

Il pavimento d’assi, come la scala e come questa tremolante, lasciava passare voci, spiragli di luce e polvere che cadeva leggera  illuminata da un raggio di sole che pareva la scia che Trilli lasciava nei suoi voli tra i personaggi di Peeter Pan. Un armadio, un comò con sopra la campana di vetro racchiudente la MariaBambina, un matrimoniale con la coperta di piquet bianco rammendato e pulito, il lavabo di ferro battuto con catino e brocca smaltate bianche sbrecciate qua e là. Ed i due pitali, i vasi da notte ai lati del letto.

 

Un'altra scala ancor più malsicura portava al terzo piano, alla stanza sottotetto, quella dei figli oramai fuori da tempo ed abbandonata per mancanza di scopo e per il numero di scalini.

Ricordo le finestrelle vicino alle travi, piccole come nelle capanne che noi bambini costruivamo.

M’affacciavo e sognavo di essere in un rifugio sulle Alpi. A volte su un dirigibile ed ogni volta ne discendevo impolverato e sgridato.

  

Non c’era stanza da bagno, la turca, era in un gabbiotto nel piccolo cortiletto dietro la casa, a 5 metri dal treno che passava nero, imponente e rumoroso lanciando nell’aria fumo, vapore ed il suo lungo ed allegro tuuut . Drago dell’epoca moderna. Mi incuriosiva ed intimoriva e mi diventava difficile non farla fuori.

 

Quando mi trovavo dai nonni all’imbrunire, mio padre mi prendeva in braccio permettendomi di accendere il lume a petrolio. Che mandava fumo, flebili sprazzi di poca luce e traballanti ombre inquietanti. Il treno passava sferragliando, fischiando, facendo tremare tutto. Ero grato a mio padre che prendeva congedo riportandomi dalla mamma.

 

I nonni vivevano lì da sempre, vicino alla ferrovia e vicino alla vigna. Uva ed erba medica o grano o granturco. Non la loro vigna, ma la vigna del Padrone, quel signore distinto, vestito di chiaro, che nemmeno mi vedeva mentre giocavo tra i sacchi di frumento che lui contava e divideva per due.

NonnoGino (Luigi) era mezzadro che per lui significava eternamente povero e per il padrone mezzo ladro.

Era alto e allampanato, un po’ curvo. Teneva sempre in mano un fazzoletto col quale massaggiarsi le guance scavate. Non aveva un dente; gli erano stati strappati a più riprese da un medico dentista che non sapeva cosa fosse il nervo del trigemino e dei dolori lancinanti che quest’infiammazione perenne dava.  NonnoGino lo ricordo soprattutto così, col fazzoletto alla bocca, col suo latte e biscotti al Plasmon unico suo cibo che non necessitava di masticazione e per i suoi continui haiu haiu!.

Durante una tremenda tempesta estiva, già esasperato dagli eterni dolori, si tagliò le vene dei polsi mentre guardava il raccolto divenire irraccoglibile. Non ricordo come fu salvato e da chi, e mai lo chiesi. Ero piccolo.

Lavorando alla costruzione del ponte sul Po aveva cercato un po’ di refrigerio nel pioppeto che costeggiava il fiume. E lì vi aveva trovato anche la Lue. Tra le …….braccia di una femmina anch’essa molto…accaldata. Fortunatamente questo avvenne quando i figli erano già nati. E così altri non ce ne furono.

Ogni tanto mi si avvicinava e furtivamente mi dava 50 o 100 lire accompagnandoli sempre con la stessa frase: digal no a la nona.

 

NonnaBice (Beatrice) che di tanto in tanto mi allungava 50 o 100 lire dicendomi immancabilmente digal no al nonu, era abbastanza alta e robusta ed eternamente coperta da quei vestitoni neri a fiorellini bianchi che vedevo a tutte le donne anziane in campagna.

Quando perdeva un dente lo infilava nelle fessure del muro, all’esterno della casa. Ogni volta andavo a controllare oscillando tra il divertito ed il raccapricciato. Sgomento, quella volta nella vigna, quando in piedi con me per mano, si lasciò andare, protetta dal vestitone, ad un liquido bisogno corporale. Così usavano.

Aveva avuto dieci gravidanze ma i viventi mi formavano l’insieme di un padre, uno zio ed una zia. Un quarto figlio, il Giovannino se n’era andato a sette anni camminando su di un filo spinato arrugginito.

 

Mio padre era il primogenito, quello che si faceva in quattro per aiutare la baracca e che si fece dieci anni tra militare e guerra. Al suo ritorno dal Don, distrutto, piagato nel corpo e nello spirito, ma non piegato, fu visto entrare in cortile, barcollante su una barcollante bici rubata in Ungheria, dalla sorellina non ancora conosciuta che istintivamente lo riconobbe: mama l’è turnà me fradè.

E la Bice: menu mal, che ghè da vendemià.

Mio padre dopo 2 anni di Russia, 1.200 chilometri di ritirata a piedi e 100.000 gavette di ghiaccio si  prese solo allora, il lusso di svenire.

 

Lo zioTere(sio) era più coccolato. Quando gli davano un incarico non lo rifiutava mai, e non brontolava come magari faceva il Lino, però non lo eseguiva. Ed era ancora il Lino che brontolando lo portava a termine. Ma quando c’erano quattro soldi da spartire fra tre fratelli, due andavano al Tere perché puerin lù al fùma….!!

 

La zia Angela sposata lontano, oltre Milano, sposata bene, veniva al paese di tanto in tanto con la Giulietta e riforniva il nonno dei Plasmon ed altro. Riforniva la nonna di tante fotografie del figlio, mio cuginetto. Io provavo gelosia nel contare le tante foto del Gianni allineate sulla credenza.

Tante contro una, quella della mia prima comunione. Sospettavo maggiori simpatie per il figlio della figlia, benestante… solo da grande immaginai che avessero l’unica foto mia, che i miei genitori furono in grado di dare loro.

 

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Nugola (Li) 

La casa era a due piani ma dalla strada erano uno.

Incollata sul dorso della collina, che vista dalla strada di sotto sembrava una chiocciola che vi salisse. Su, verso i cipressi della chiesa, tra lecci ed allori secolari.

Di lato un canneto, con mille cime come lance ondeggianti alla brezza del mare non lontano.

Un orto delimitato da tanti barattoli arrugginiti, da conserva, dove nonnaTonia (Antonietta) faceva prosperare ogni tipo di fiore e pianta grassa. Oltre che a fave, carciofi e pomodori. Poi un po’ di vigna, con una pergola con sotto tavolo e panche. Sul tavolo vi erano due bottiglie verdi, vuote, forse della Buton, che raffiguravano molto bene Dante e Beatrice. Il capanno degli attrezzi anche adibito a pollaio e più giù, tra viti e piante di fico, un’arnia ronzante di fermento.

 

Tre stanze sotto tre sopra. La più importante era la cucina con un camino imponente, l’acquaio di granito con sotto le conche. Una grossa madia grigina o forse verdina con tanti cassetti dai quali mio cugino grande Alberto prelevava un biscotto per me.

La  sera mia madre e mia nonna rigovernavano, io accostavo tre sedie impagliate e mi ci addormentavo sopra, cullato dalle loro rassicuranti voci e dall’acciottolare delle stoviglie.

Nella seconda stanza di sotto, di notevole, ricordo il giradischi di Alberto, dove, alle soglie dell’adolescenza,  consumavo i dischi di Paul Anka e Elvis Presley, e Rapsodia in Blue di Gorge Gershwin.

 

La terza stanza di sotto era la camera da letto e studio dello Zio Alvano, padre d’Alberto, vedovo, personaggio di gran carisma, di grandi ideali, di grandi fedi, rettitudine, slanci e durezze. Ci vorrebbe un libro per descriverlo. Sicuramente facendogli torto riporterò solo un breve suo colloquio con me sedicenne: “o bimbo, ti vedo un po’ troppo dalle parti della posta……”ci abita una mia amica”……”ricordati che le donne possono solo essere mogli od amanti, amiche mai”.    Amen.

 

La turca era accessibile dallo stanzino adiacente la cucina. Un po’ disimpegno, un po’ cantina per i fiaschi di Sangiovese autarchico. Ben appartato, ma con due intercapedini lunghe e buie ricavate dalle fondamenta che m’incutevano un po’ d’angoscia, ed una gran fretta.

 

Al piano di sopra, quello che dava sulla strada, l’ingresso alla casa era consentito da quattro scalini di mattoni rossi che portavano nel piano superiore alla stanza di mezzo. Era una stanza da ricevimento con una libreria carica di libri di botanica, la Divina Commedia, un mandolino.

 

A destra la camera d’Alberto dove dormivo anch’io nei lunghi soggiorni estivi. E per me era il massimo poter condividere tutto ciò che era condivisibile con quel cugino di otto anni più grande. Un idolo. Ricordo il ventilatore nero da lui riparato grazie alle lezioni (per posta) della scuola Radio Elettra di Torino.

 

A sinistra v’era la camera da letto dei nonni con uno splendido letto di ferro battuto ed intarsi di madreperla oggi tenuto in un box da mia cugina Adriana. Mi par di sentire ancora lo sgangherato russare di nonno Primo a due stanze di distanza.

 

Il nonno. Anch’esso personaggio di grande spessore. Piccolo, minuto, baffetti alla Chaplin. Visto da lontano poteva essere scambiato per Charlot. Di poche parole, ma sempre argute, incuteva timore reverenziale e rispetto nelle tre figlie: DinaLinaLea.

Uomo di cultura per l’epoca non aveva bisogno di leggerla, la Commedia Divina. La sapeva a memoria. Suonava il mandolino e la tromba. Ed aveva trombato buona parte delle donne del paese….. Capocomico e regista e suggeritore (da cui il soprannome Il Suggeri) della compagnia teatrale di un paese di 300 abitanti da lui trascinati.

Aveva fatto cento mestieri: il sottoFattore, il negoziante di stoffe, e di altro, il ciabattino, il gestore del bar cooperativa del paese (l’Appalto), sempre con ingegno e capacità ma mai con fortuna. Diceva che nel momento in cui avesse fatto il cappellaio sarebbero nate persone senza testa.

Fece anche il barbiere. Le persone continuarono a nascere normali, ma neanche quello fu un mestiere fortunato, in un paese di 300 anime.

Oramai più che settantenne si trascinava un carrettino a mano con due bidoni che faceva riempire di latte alla stalla. Controllava con un densitometro che non vi avessero aggiunta acqua e partivamo per la distribuzione in tutto il paese. Suonava una trombetta e le donne uscivano con i loro recipienti. Ognuna aveva per lui una battuta. Grande ed inesauribile è lo spiritaccio dei toscani. O Suggeri, hai finito di appartarti tra i pagliai….. io non capivo ma non chiedevo al nonno il significato, lui era molto silenzioso, ed io, nella mia innocenza, intuivo che era meglio non chiedere.

Quando mi portava per funghi, riempiva il cestino di vimini di porcini e ovuli. Mi lamentavo di non vederne uno e lui mi spronava a guardar bene. O bimbo, guarda costì  a modino. Ma vedevo solo foglie. Lui col bastoncino le rimuoveva ed io mi illuminavo.

 

Si era fatto costruire e costruito la casa per sposare nonna Antonietta, ma si dice che la sera delle nozze fosse prima passato a salutare l’ultima fiamma.

Nonna era una donna storica e stoica, di grande forza d’animo e mitezza. L’unico gesto di ribellione mi risulta fosse stato quello di forare con uno spillo gli occhi di una bella ragazza ritratta in una foto con dedica, trovata nelle tasche del nonno…. Se ho un rimpianto, da sempre, è quello di esser  stato solo nipote viziato, in quell’ultima interminabile vacanza dei miei sedici anni dove ricevetti, da lei già molto anziana e oramai curva per l’artrite, ogni sorta di silenziose attenzioni e silenziose prove d’affetto. Dandole ben poco in cambio.

 

Ma io ero tutto concentrato su quel mio giovane presente, sulla Lambretta abbandonata da Alberto, fiero neo possessore di una NSU Prinz verde pisello. Sulle mie prime Kent esibite nelle scappate alla posta, dove un paio di mutandine lilla stese ad asciugare avevano su di me l’effetto di una camionata delle attuali pillole blu.   Mai viste altro che stese.

Mancavano ancora quattro lunghissimi anni al sessantotto e nonnoPrimo se n’era già andato in un funerale al quale parteciparono tutte le donne del paese, ma non tutti gli uomini.

 

Da allora, ogni volta che torno, mi reco al cimitero.

La passeggiata è bellissima, ondulata attraversa le vieFonde, incassate tra due rive di arenaria rossiccia che a settembre diventa ciclamino. Non si vede il cielo perché i lecci secolari ne sono il cielo.

Il cimiterino è grazioso e molto toscano. Le due tombe sotto un cipresso che vi lascia cadere tanti aghi. Ogni volta ripulisco, scusandomi ancora con nonna e rimproverando  nonno di non avermi trasmesso abbastanza del suo DNA.

 

 per  Beatrice e Luigi,    per  Antonietta e Primo        da Antonio Luigi Primo