_______________________Broni e Nugola 2

                                         (ricordi allargati fatti di niente)

         

                                              

                    Ma come vorrei avere i tuoi occhi,

                    spalancati sul mondo come carte assorbenti

                 e le tue risate pulite e piene, quasi senza rimorsi

                 o pentimenti,

                    ma come vorrei aver da guardare

                    ancora tutto, come i libri da sfogliare

                 e avere ancora tutto, o quasi tutto, da provare.

                          

                    Culodritto che vai via sicura,

                    trasformando dal vivo cromosomi corsari,

              di Longobardi di celti e romani dell’antica pianura,

              di montanari,

                     reginetta dei telecomandi,

                     di gnosi assolute che asserisci e domandi,

                     di sospetto e di fede nel mondo curioso

                     dei grandi,

         anche se non avrai

         le mie risse terrose di campi, cortili e di strade

         e non saprai

che sapore ha il sapore dell’uva rubata a un filare,

         presto ti accorgerai

come è facile farsi un’inutile software di scienza

         e vedrai

che confuso problema è adoperare la propria

         esperienza,

                         

   Culodritto cosa vuoi che ti dica

                      Solo che costa sempre fatica

             e che il vivere è sempre quello, ma è storia antica.

                      Culodritto,

                        

     dammi ancora la mano,

                     anche se quello stringerla è solo un pretesto

             per sentire quella tua fiducia totale che nessuno   

                          mi ha dato,

                          o mi ha mai chiesto;

              Vola, vola tu, dove io vorrei volare

              verso un mondo dove ancora tutto è da fare

                          dove è ancora tutto, o quasi tutto,

                          da sbagliare.

                                Francesco Guccini  “Culodritto”

   (dedicata alla figlia)

 

E devo fare ammenda con Dario.

Che scrive di ricordi, di passato, perché vuole che sia noto ai figli e da loro tramandato.

Sono spesso bonariamente irridente verso il mio amico carissimo. Pur essendo anch’io romantico, possiedo una vena di cinismo che mi fa mandare spesso in vacche tutto ciò che mi profuma di sdolcinatura imbarazzandomi.

E anche poco interessato a perpetuare tradizioni.

E così, anche se da una parte gli dico che preferirei avere una nipotina femmina, noncurante del mio cognome che andrebbe in estinzione, dall’altra raccolgo il suo imput a continuare l’operazione buttandomi a pigiar tasti.

Un tuffo nel mio passato, un passato comune alla mia generazione Ma non tutti hanno avuto la fortuna di avere dei nonni di campagna.

Scritto, con mia sorpresa apprezzato da Simone e Raffaella, incuriositi e piacevolmente interessati a scoprire quel mondo oramai scomparso.      

Perciò:         

 

C’era, ancora una volta……

…………………………la casa lunga e stretta come un dito medio, confinava con il cortile più piccolo di un altro caseggiato.       Polli, conigli, galline e gatti, n’erano i padroni.       Non ricordo gli umani.

Ed i re erano un gallo ed una cagna, Mila.   Non credo che il gallo avesse un nome,  ma vivido è il ricordo del suo odio nei miei confronti.    Non appena passavo il cancello di legno traballante, lui attraversava l’aia sbattendo le ali, avventandosi contro di me. Mirava alle gambe scoperte ed anche più su.  Manco avessi guardato con appetito o libidine le sue pennute compagne.

All’ora era Mila, che con zampate, musate ed abbaii lo costringeva al pollaio.    Andava poi a recuperare uno straccio ed io diventavo il torero, lei il toro.  Arrivò addirittura a rinchiudere il focoso pennuto ancor prima che aprissi il cancello. (dai ricordi di nonno Lino)

 

Giocattoli ne ricevevamo pochi in quell’epoca di dopoguerra. Solo a Natale, alle promozioni ed ai compleanni.     Ma il mio cadeva 17 giorni dopo il Natale. Troppo vicino per altre spese voluttuarie.

Ed allora era la fantasia ed il territorio amico a procurarmi i giochi.

Archi e frecce erano facilmente realizzabili con dei pezzetti di legno ed uno spago.   La campagna circostante diventava allora prateria, ed una mano battuta ritmicamente su un gluteo durante la corsa, rendeva efficacemente il galoppo dei munstangs dei films di un giovanissimo John Wayne.

 

Ma avevamo il telefonino: due coppette da gelato unite da uno spago lungo qualche metro. La voce meravigliosamente correva lungo il filo e giungeva all'orecchio infilato nella coppetta. Erano le prime scoperte della fisica.

 

A Broni la chiamavano Cirimella ed a Milano Lippa. un manico di scopa lungo circa 70 cm. serviva a batterne un altro pezzo lungo circa 10. Questo, posto a terra, aveva gli estremi smussati ed appuntiti. Battendolo sulle punte si alzava e con un secondo colpo in volo lo si scagliava il più lontano possibile. E possibilmente anche dai vetri. Poi arrivarono gli americani col baseball..... 

 

Una scatola da scarpe ed una trentina di colorate cartucce, già esplose da mio padre cacciatore, si trasformavano ogni giorno in qualcosa di diverso.   Oggi divenivano un garage con tanti camioncini che riempivo di terra, sabbia, sassolini od erba. Domani, una caserma con tanti soldati divisi in compagnie di colore diverso. I cartuccioni, quelli con il bossolo d’ottone più alto, erano i comandanti. I cartuccioni servivano per sparare a lepri e fagiani, ma ricordo solo cartuccioni e storni….

 

Avevo 6 o 7 soldatini spaziali che chiamavo i marziani. Mi è ancor presente l’odore della loro plastica nuova, mentre ingaggiavano estive battaglie stellari, insediati nelle piante di gerani sul balcone di casa.

 

Vestiti e scarpe erano quasi sempre riciclati, ed essendo l’ultimo dei cugini, avevo ampia scelta.

 

La primavera portava novità in campagna e la natura ci forniva tante nuove possibilità di giochi.

Il raccogliere viole da portare alla mamma inaugurava la bella stagione.

Dalle vicine colline a vigneti, scendeva un venticello che faceva vibrare le foglie giovani.

Due legnetti leggeri, colla (la bianca cocoina dal leggero odore di mandorle), carta velina, spago,

e via sudato col naso all’aria.     I miei aquiloni erano sempre azzurri e bianchi.

 

Terza elementare: promosso! Mai avrei immaginato di ricevere una canna da pesca. Bellissima, in tre pezzi di vero bambù.  Tre tubetti d’ottone consentivano il congiungimento fino a raggiungere i tre metri e mezzo.  Mancavano solo filo, amo e galleggiante, poi il laghetto di Cicognola ad un chilometro, ma solo col papà; che mai mi ci portò!  Tentò di portarmici, (farsi portare con la mia auto) solo quando già ero fidanzato.   Gli dissi che la pesca non m’interessava più da quando avevo otto anni.

Quell’estate di terza elementare i miei mi mandarono in colonia.  L’aria alta di Macugnaga avrebbe giovato alle mie gracilità. Per la prima volta fuori casa, mi sentivo solo e scrivevo lettere bagnate. Raccontavo di febbri immaginarie. Per consolarmi, al giovedì dicevo alla signorina di aver dimenticato il fazzoletto e correvo in camerata al secondo piano. Da dove potevo assistere alla doccia delle bambine. Tante insieme e tutte rosa. Nonostante le febbri, tornai ingrassato di un po’. E così tentarono di mandarmici anche l’anno successivo.   Ma senza dirmelo.

Un giorno di primavera, mi avvisarono che sarebbero venuti con amici a prendermi a scuola in macchina (un evento per quei tempi). Un fatto strano, dato che avevo sempre con me la bici. Sentii dire dai compagni che dopo scuola avrebbero fatta la vaccinazione per la colonia.

E mangiai la foglia. Lungo sarebbe il racconto di come tenni in scacco per ore una mamma, due amici ed un automobile. Alla fine, mentre ancora mi cercavano per le vie del paese, nascosta la bici in cantina, entrai in casa con l’intento di prendere la merenda e rifugiarmi nel grembo protettivo dell’amica campagna. In casa, non previsto, trovai mio padre molto sorpreso. Gli raccontai le mie peripezie ed astuzie, ed afferrai del pane a cui lui aggiunse il cioccolato. Divertito, forse fiero delle mie astuzie, del mio fiato, e determinazione.

Io non ti ho visto.  Mi rividero a buio inoltrato, quando i rami dei salici ancora quasi spogli, mi avevano assunto l’aspetto di creature malevole.   Non andai mai più in colonia.   

Non ricordo di aver mai preso botte, da un padre così.

 

I Bussolotti: i più benestanti avevano le precise canne in ottone, acquistate dagli elettricisti. Magari in doppietta o tripletta. Gli altri in plastica. Erano distanziate e tenute insieme da sugheri da bottiglia ed elastici ricavati dalle camere d’arie di biciclette. I bussolotti migliori, ben attorcigliati e leccati, provenivano dal fare a strisce i quaderni dell’anno precedente. In mancanza: carta di giornale, che odiavo per il sapore di stampa e per la poca precisione di tiro. Tenevamo le munizioni di riserva infilate tra i capelli eternamente arruffati. Gioco prettamente pre-estivo, prima che il barbiere ci applicasse la scodella facendoci la melonata. Il gioco era pericoloso per gli occhi, a volte  inserivamo uno spillo nella punta.

 

Sentii sussurrare di chiusure di caseChiuse. Le immaginai prive di porte e di finestre e mi chiesi come si potessero chiudere delle case già chiuse. Era il 1958 e solo molti anni dopo capii che case più aperte di così non ne sarebbero più esistite.

 

Salgari e Verne, Il furbo Topolino (ma preferivo lo sfigato è più umano Paperino) e Capitan Miky. Blek Macigno e tanti Nembo Kid (versione italiana di Superman).   Poi, ogni settimana, prendevo la biciclettina e correvo dall’altra parte del paese, da un amico dei miei che leggeva il Giorno.

Al giovedì allegavano un inserto per ragazzi.  Dan Dare raccontava di fantascienza ed aveva un disegno per me molto elegante. Un precursore dell’attuale Moebius.

Verne e Batman mi avevano salvato dalle tristi letture che all’ora si consigliavano all’infanzia. Quante lacrime leggendo il finale deiRagazzi della via Pal.   Quante lacrime disseminate tra le pagine diCuore.   Quasi la metà di quelle, che la vita ancora a venire mi avrebbe poi fatto versare.  Ne valeva la pena?  Al diavolo De Amicis e compagni! Evviva l’improbabile Nembo Kid, evviva Salgari e le sue fantasiose avventure che facevano sognare!

 

Divoravo tutti i fumetti che riuscivo a scambiare con gli amici, ma da quando zioTeresio mi regalò un grosso pacco di Urania, la fantascienza divenne pane quotidiano.   E lo fu fino a quando i miei cugini di Stradella, Adriana e Silvano, di poco più grandi, e già più colti, mi presentarono un americano dal cognome difficile: John Steinbeck. Uomini e Topi  fece da boa, abbandonai Jsaac Asimov e A.G.Clarcke ed iniziai la mia virata verso letture più serie. Utile il sostegno dei cugini nella mia formazione culturale. Adriana suonava il pianoforte e Silvano mi scriveva la poesia con la quale io vincevo un concorso.  Bionda o bruna che sia, pur sempre è buona l’uva che splende ai piè di s. Contardo, i bronesi la curan con passione, l’indora il sole col suo infuocato sguardo……….  

 

Adolescente, mi fecero ascoltare il primo disco di un nuovo cantautore genovese.

Fabrizio De Andrè (18-02-1940   11-01-1999)

Ebbi l’illuminazione che Paolo trovò sulla strada di Damasco.  Ma stando coi piedi sulla via Emilia.

Dai cugini a Stradella andavamo ogni due o tre mesi. Mia madre mi faceva il bagno, mi vestiva bene e prendevamo la corriera.   Tra la mia casa di Broni e la loro di Strabella vi erano circa 6/7 chilometri….

 

Quarta elementare: promosso! La richiesta (quasi sindacale) era stata di un pallone di plastica da prendere a calci (£ 500)  ed una piccola pistola (£ 500)  allora di gran moda tra noi ragazzini.

Arrivò solamente il pallone, ed arrivò subito la prima sfida all’amico Gianni. Uno contro uno, una sola porta,  il cancello.   Vinceva sempre lui,  più grande,  più forte  e più bravo.

Ma lì, rischiò di perdere la mia amicizia, quando un suo tiro preciso e forte, che gli diede un altro punto, fece rimbalzare la palla, dal cancello all’altra parte della strada, afflosciandosi sul filo spinato. Non erano passati neanche i 90’ regolamentari quando fui costretto a ritirar fuori la scatola delle cartucce…..

 

Ebbi tante biciclette, indispensabili per spostarsi allora, tanto più che abitavamo alle case Popolari, un nuovo quartiere fuori paese, in aperta campagna  e lontano due o tre chilometri dalla scuola. Biciclette usate di tutte le misure, con una delle prime, mentre percorrevo la provinciale fuori paese, rischiai di scivolare sul ghiaietto a bordo strada, mentre sopraggiungeva la corriera di linea.

La forte mano di mio padre mi prese per la collottola ed io sospeso, sgambettante nel vuoto, vidi passare ad un metro il grosso pulmann blu, e la biciclettina terminare la corsa nel fosso.

 

Quinta elementare: promosso! E ricordo ancora l’emozione, quando richiamato sul balcone dal fischio di mio padre, vidi lui in strada sulla sua bici, ma con in spalla una rossa e fiammante bicicletta ancora mezza incartata. Fu l’unica nuova posseduta e con lei filavo felice e velocissimo che parevo il rosso Flash Gordon.

 

Nelle sere invernali ci radunavamo tutti, donne e bambini, nella casa di una vicina, precoce proprietaria di un televisore. Maestoso, troneggiava da un mobile alto con sotto lostabilizzatore. Nessuno poteva toccarlo. Al giovedì Lascia o Raddoppia  elevava la cultura media degli italiani. Io ero abbastanza piccolo per non capire la maggior parte di domande e risposte. Al sabato era Mario Riva con il suo Il Musichiere che attirava l’attenzione di mamme e figli. E lì anch’io iniziavo a voler dire la mia. Durante un Festival di SanRemo, appuntamento imperdibile, le donne dividevano favori e pronostici tra Nilla Pizzi, Carla Boni e Gino Latilla.  Fui zittito in malo modo da tutte le virago presenti quando espressi il mio entusiasmo per una giovanissima cantante che urlava di certe Bolle Blu: Mina Mazzini da Cremona.

 

Pochi avevano la televisione; tutti la radio, MagnetiMarelli o Radio All’Occhio Bacchini ed ascoltavamo musica tutto il giorno.

Dalla casa di via Emilia dove nacqui, venni via all’ottavo anno, quindi nel ’56. E lì, sulla via Emilia ho ancora il ricordo dell’ultimo modo alternativo di ascoltare musica. Ogni tanto passava un organetto. Grande e variopinto stava su un carretto tirato da un somaro. Correvo in strada con le 10Lire datemi da mia madre ed osservavo il trio organetto/somaro/proprietario mentre ascoltavo la mia the best del momento: Papaveri e Papere. Oggi riesco a ricordare ancora confusamente i colori e bene il suono delle sue note semplici ma mi rammarico di non ricordare la persona, questo uomo che come lavoro portava musica ed allegria a domicilio su e giù per le strade e nei cortili. Ora vorrei sapere di quell’uomo, dove fosse vissuto, dove dormiva la notte, cosa l’avesse spinto a quella professione quasi filantropica.

 

Eravamo davanti alla stazione. Una gazza ladra incuriosita da noi e per nulla spaventata ci saltellava intorno a due o tre metri di distanza. PapàLino mi fece un esempio pratico del perché quell’uccello fosse così chiamato, togliendosi la Fede (d’argento) e posandola a terra in vista dell’animale. Che con due saltelli la prese nel becco e con altri due corse a depositarla in un tombino…. inaccessibile…..

 

Era una grossa stufa a legna e carbone che si faceva carico di tenerci caldi. Sulla piastra rovente oltre a pentole e padelle, bucce d’arance e mandarini spargevano un profumo che ricordo con dolcezza.

 

Nelle serate estive, mentre gli uomini erano al bar per una partita a carte ed un bicchier di vino rosso, le donne portavano la loro sedia davanti casa. Appoggiate al muro, sopra l’onnipresente portulacca e vicino ai cespugli di belleDiNotte, trascorrevano le ore serali in chiacchiere.  L’aria era tiepida e profumava di tigli. I bambini sparpagliati attorno giocavano a nascondino al buio e si misuravano il coraggio avventurandosi nei luoghi consueti di giorno, ma che assumevano contorni inquietanti la notte. Non vi era apprensione nelle mamme, lasciavano andare, consce che il pericolo maggiore sarebbe stato una sbucciatura di ginocchia.

Il territorio ci era amico ed in paese non avveniva mai nulla che mettesse apprensione.

 

Nella bella villa di via E. Togni,  vivevano due maghi e due elfi. magoGianni ingegnere chimico ci stupiva e meravigliava con i suoi bicchieri pieni d’acqua che, con chimiche alchimie, trasformava in bicchieri colmi di vino o di sciroppo alla menta.  Con le sue bolle chimiche, che soffiate da una cannuccia assumevano dimensioni e colori e resistenze inusuali.

Ora magoGianni sta meravigliando i bambini che non ci sono più.

FataMarina professoressa, mi stupiva per dolcezza, bellezza e merende.

Ed intatta, continua a farlo ancor oggi, quando passo a salutarla. Ha solo sostituito le merende con i Ferrero Rochèr.  Ricordo poco di elfoAlberto, ma con elfoFranco, all’ora mio compagno alle elementari, ci si arrampicava sui due pini del giardino.   Franco, con una pensante e pesante zucca alla Einstein (ma più bravo di lui a scuola) era il primo della classe ma il più lento della compagnia.

 

Tanto era il mio affetto che cercavo sempre di favorirlo durante le corse a cronometro nelle quali ci sfidavamo in bici. Eravamo 5 o 6 bambini e lui arrivava sempre ultimo, ma per colpa mia, che convinto di agevolarlo, maldestramente manovravo il cronometro ragionando al contrario, ed appioppandogli 10 secondi in più, invece che in meno.   E ciononostante, continua ancor’oggi ad essermi amico caro, anfitrione e guida durante i Pali di Siena.

 

Le imprese ciclistiche di Coppi e Bartali volavano di bocca in bocca e spaccavano in due il tifosi italiani. Noi disegnavamo con il gesso un circuito, applicavamo un pezzetto di carta con il nome del corridore preferito ad un tappo da bibita e con quello, con colpi di pollice trattenuto dall’indice gareggiavamo. Io tenevo per un francese, Jaques Anquetil.

Un campione ma straniero, e per questo ero irriso. Quando il giro passava da Broni, tutto il paese era al bordo della via Emilia. Sulle spalle di mio padre urlai il nome del mio campione al folto gruppo, tante facce sudate ed eguali. Una si sollevò, e sollevò la mano in un saluto ad un bambino italiano che tifava per un francese troppo forte per essere benvoluto in Italia.

 

Lo Scuropasso era un torrentello con poca e pulita acqua.   Ci andavamo di nascosto dei genitori. Toglievamo i pantaloncini ed iniziavamo a costruir dighe. Poi ultimate, partivamo tutti in insieme, con l’acqua che sfiorava le mutande di tela fatte in casa, e spingevamo i pesci verso la diga, con la speranza di qualche cattura importante.

 

La raccolta e lo scambio di figurine c’insegnava le prime regole della contrattazione. Cielo cielo cielo manca manca. Queste quattro per le tue due.

 

Zio Tere mi regalò anche una nave da guerra di legno, da lui costruita. Galleggiava un po’ storta, ma era bella e doveva raffigurare la nave sulla quale lui aveva fatto la guerra.  

Mi raccontò di navigazioni, di battaglie sull’oceano, del siluramento che avevano subìto.

Io navigavo con lui.     Ma lui silurato, lo fu per tutta la vita.

Aveva sposato Bocca di Rosa, nonostante il prodigarsi di parenti ed amici nel dissuaderlo. Lei morì in un incidente stradale ancora giovane, poco dopo i quaranta, ed al suo funerale molti uomini si contesero l’onore di portar la bara.   Zio Tere tanti anni dopo, sul letto di morte si strappò le varie cannule per fare un salto a casa a masà la dona,  morta già da molti anni.

Nonostante la nave di legno e gli Urania, non c’era mai stato feeling tra me e zioTere; quando dodicenne facevo il tifo per l’elezione di J.F.Kennedy lui, a seguire, mi contrapponeva la saggezza di N. Krusciov nel risolvere la pericolosa questione della Baia dei Porci. Lui era comunista e non capiva che la mia infatuazione verso tutto ciò che era americano derivava semplicemente dall’ammirazione dei miei nuovi idoli: Elvis Presley, il juke-boxe, E. Hemingway, e gli agognati jeans che avrei indossato solo anni dopo.  

 Quando ormai grande, inserito nel mondo del lavoro e dei sindacati, mi scoprii col cuore a sinistra, lui aveva preso in gestione il bar delle Acli, e si scoprì democristiano.   Rimasto solo ed in pensione, si adoperò per fondare e dar lustro alla sezione bronese dei Marinai Reduci di Guerra. Fu lo scopo del resto della sua vita. Ne divenne presidente, si diede da fare fino a diventare prima Cavaliere, poi Commendatore. Per meriti di guerra.Girava impettito in doppioPetto color marina e bottoni dorati con l’ancora. E distintivi vari.  

Se lo incontravo in un luogo affollato, lo chiamavo Commendatore, con grande sdegno di mio figlio che mi rimproverava la presa in giro. Salvo ricredersi subito, guardandolo andar via gongolante.

Io intanto, avevo saputo da mio padre che le gesta eroiche dello zio si erano svolte, esclusivamente, tra le paratie della cucina di bordo.   Aiutante di cucina.

 

La sorella, zia Angela, anni prima aveva cucito per me i pagliaccetti che uniti alla banana (di capelli) voluta da mia madre, mi facevano confondere con una discreta bambina. Odio ancora quelle foto.

La zia, volitiva bellezza contadina, spaccò la chitarra sulla schiena di mio padre che l’aveva sbeffeggiata con una flautolenza.  Chitarra che a lui serviva per fare le serenate  conto terzi.

 

 

Oltre alla televisione, altre tecnologie iniziavano a farsi strada in paese. La prima lavatrice elettrica apparve un giorno nel cortile in via Emilia.  

Le donne del vicinato, con la testa dentro ed i sederi all’aria, ispezionavano commentando il nuovo elettrodomestico.  Io a pochi metri, infilato nel grosso scatolone che l’aveva contenuta, ispezionavo minuziosamente le figlie.   Avevo sette o otto anni e tante curiosità.  Iniziate due anni prima, quando a mia volta ero stato ispezionato da una pedofila di nome Nella di due anni più grande.             

 

La promettente carriera di mini seduttore, con la voglia di ispezionare, mi fu poi quasi completamente inibita una volta trasferito a Milano. In sette lunghi anni d’oratorio, unico posto  possibile e passabile per un ragazzino migrato in città e orfano di cortili e campagne.

La confessione dei ragazzi avveniva nel primo pomeriggio del sabato, e l’alito del prete a pochi centimetri, greve, di un pasto appena consumato caffè compreso, mi stonava col profumo dell’incenso.

Ma ti sei toccato? E quante volte? Da solo o in compagnia? E in che modo?

Mortificante disgustoso pedo-vojeurismo uditivo!    Una volta, ma già abbastanza grande da aver scoperto che non era vero che masturbandosi si diventava ciechi, alla fatidica domanda: haicommesso atti impuri? Risposi: SI. Quante volte? Tante. Ma quante? 10? Di più. 20? Di più, di più! 50? 100?  Forse! Sparò un frettoloso Ego te assolvo in nomine……

Non rinnego in toto gli insegnamenti ricevuti in quegli anni di formazione, ci mancherebbe, ma ancor’oggi scopro indispettito, condizionamenti e frustrazioni gratuite ed inamovibili.

 

  

   

La casa che risaliva la collina come una chiocciola, aveva sul retro, tra il muro ed i barattoli di fiori di nonnaAntonietta, una striscia di cortiletto in terra battuta.   Lì, con i miei amici estivi, costruivamo cose varie: carrarmati, barche, animali e casette. Bastava un po’ d’acqua e la terra del cortile. Poi s’impastava ben bene, si dava la forma, si lisciava ed il sole asciugandoli li rendeva atti al gioco.   Gli amici indigeni dicevano: giochiamo a far la mota. Per me era fare il piciu-paciu.   

E tremendi i toscani nello sfottìo, anche da piccoli.

 

NonnoPrimo mi costruiva il suo famoso carretto di pigne. Due belle pigne ancora chiuse erano unite da un pezzetto di canna e formavano due ruote col loro asse. Poi altre, collegate alle prime da altri pezzetti di canna. Ed una canna finale per il trascinamento. Se le pigne erano tante assumeva l’aspetto di un lungo e snodato treno. Od un robusto bruco.

Dipendeva dalla fantasia del momento.

Lasciai uno di questi carretti fuori dalla porta durante il pranzo. Il solleone fece aprire le pigne rendendo inutilizzabile il gioco, ma consolandomi con i buoni piccoli frutti.

 

Un boschetto di pini marittimi, chiamato lo Scapigliato (forse perché essendo sulla cima di una collinetta, raccoglieva la brezza del mare a discapito dei capelli), era il nostro teatro di guerra.

Le armi, i famosi e famigerati fucili ad elastico. Un legno dritto, spesso un manico di scopa, due mollette per panni, rubate ad un filo da stendere, ed una camera d’aria da bicicletta tagliata ad anelli sottili. Alcuni servivano per fissare le due mollette al legno, gli altri concatenati venivano tesi tra la punta del fucile e la molletta. Che schiacciata lasciava partire il colpo.  

Grandi litigate con chi, al riparo del suo pino, era colpito ma rifiutava d’ammetterlo.

…….……………..anche se non avrai, le mie risse terrose di campi, cortili e di strade…………………………………

Sempre stato mingherlino e rinchiuso nell’ovatta protettiva in cui mi conservava mia madre, ero assai timoroso dello scontro fisico, quasi inevitabile tra ragazzini allo stato brado. Facevo di tutto per sottrarmici, sottostando ai piccoli soprusi. Un giorno, esasperato, trovai il coraggio d’affrontare apertamente un mio torturatore.  E lo riempii di botte.  Divenne poi un sottile piacere, mostrargli di tanto in tanto i pugni, mantenendo così le gerarchie e l’autostima conquistate.

 

   

Un ramo a Y e qualche elastico diventavano presto fionde. Tutti n’eravamo forniti. Le portavamo a tracolla e facevamo disastri! Lampadine per l’illuminazione stradale,  cartelli stradali,  piccioni. Una volta tirando a caso, cercando di prendere una nuvola, colpii una rondine in volo che cadde ai miei piedi morente.  E tutti ne rimanemmo rattristati.   Avevamo una nostra etica.

 

Di sera ingaggiammo una sassaiola sul vialetto della chiesa. Quattro su, alla chiesa, e quattro giù all’inizio, protetti ognuno da un cipresso. Tiravamo a caso, ben sapendo che il buio punteggiato di lucciole e i grossi tronchi, difficilmente ci avrebbero consentito d’andare a bersaglio. Ma il brivido del pericolo c’era, ed anche l’emozione.   Un sasso comunque colpì il prete (il Pievano)che leggeva il breviario serale passeggiando.  Eravamo in otto, ma si precipitò solo dallo zioAlvano, forse perché questo era molto attaccato alla chiesa ed al suo ministro, mostrandogli il segno polveroso del sasso sulla tonaca.

Quella notte mia madre mi aiutò a scavalcare la finestra e raggiungere il letto. Lo zio era giù all’ingresso che mi aspettava, immaginai con una frusta o con la pistola da ex Carabiniere.

 

E quella domenica non ricevetti la paghetta che lo zio passava ad ogni nipote ospite. Attento, generoso e preciso, una piccola somma proporzionata all’età, e non in mano, ma in una busta arancione.  A me, il più piccolo, toccavano 100/150£.    Ed era subito Eugenia.

Donna anziana e simpatica che alla domenica apriva il suo negozio di due metri quadri ricavato in una casupola davanti casa. Faceva il gelato in cucina. Alla vaniglia, a volte al cioccolato. Costava 20£. Poi le seme, (semi di zucca salati), liquirizie, i lupini e se ci stava, la bottiglietta di rosolio. Eugenia non c’è più da tanto tempo, come la sua casupola. Ogni volta ne cerco le tracce sul muro ora libero. Quando le individuo risento il dolce profumo che i dolcetti mescolati le davano.

Nulla come gli odori fa riaffiorare i ricordi. Nulla come i ricordi fa riaffiorare i profumi.

 

Su e giù per le dolci colline, per campi a maggese, per boschi. Ci si trovava la mattina e si partiva. Si rientrava quando lo stomaco segnava mezzogiorno o le quattro o l'ora di cena.  Assolutamente liberi.   Le merende di nonna Antonietta variavano dal pane strusciato col pomodoro, alla ricotta con zucchero e marsala, alle frittelle con farina di castagne. Una santa donna e una santa nonna. Ma merende altrettanto gustose erano: pesche, meloni(poponi) ed uva.  Rubate…..

……………………….e non saprai che sapore ha il sapore dell’uva rubata a un filare………………………………………..

fa niente se il popone stava anche nella cucina di nonna. Studiavamo la strategia. Due a fare il giro del campo per scorgere il contadino, due alle estremità del viottolo a far da palo, ed i tre più intrepidi di corsa nel campo di meloni. Poi c’imboscavamo al riparo di un boschetto e mettevamo i meloni caldi di sole nel ruscello a rinfrescare. Li spaccavamo contro una pietra e ci tuffavamo dentro il viso sudato e polveroso, come non ci era consentito fare a casa, ridendo alle spalle del contadino, eccitati dall’impresa.

 

Era raro che mi trovassi a Nugola d’inverno. Era un inverno diverso, il verde non cedeva il posto al bianco della brina padana. Ma l’assenza di riscaldamenti ci obbligava ad andare a letto in compagnia. Il prete era un doppio arco di legno la cui parte superiore teneva sollevate le coperte, mentre la base accoglieva lo scaldino di terracotta colmo di braci. Esalavano odore d’ammoniaca. S’ entrava nel letto caldo solo al centro, ai lati era freddo ed umido. I regali li portava la Befana ed Alberto, salito sul tetto, mi faceva cadere attraverso la cappa del camino caramelle, mandarini arance. In un Natale fui raggiunto ed agguantato dal morbillo. Tutti stavano nelle stanze di sotto, dove si svolgevano le attività diurne. Io a letto, di sopra, mi sentivo solo e con un po’ di paura mentre sopraggiungeva il buio. Sentii movimenti sotto il letto e urlai il mio spavento a chi stava di sotto. Mi rispose mia madre: ma dai, sarà quel salame d’Alberto…..ma, ma è un salame che si muove….! Risposi io per nulla rassicurato.

Il lungo viaggio di ritorno in treno consigliò un po’ di convalescenza. Ed andai qualche giorno alla scuola del paese. Una sola aula. Da una parte i bambini di prima e seconda, dall’altra: terza quarta e quinta. Una maestra, signora Pelli.

Avevo un bel libro a loro sconosciuto, che insegnava a disegnare. E mentre mi esibivo copiando alla lavagna, tutti gli scolari stavano con la bocca aperta davanti alle finestre appannate, affascinati da un evento inusuale.

Stava nevicando. Ed io continuavo a disegnare. Fu la maestra a spiegare ai compagni che la mia non era mancanza di poesia ma assuefazione ad un evento meteorologico per me tanto normale.

 

Era pur sempre divertimento la ricerca e raccolta degli asparagi selvatici in primavera, quando riuscivo ad essere là per Pasqua. Delle more dell’estate, con nonna che me le condiva con lo zucchero e un goccio di vino o che trasformava in marmellate.

Funghi e ciclamini quando l’estate finiva. E porcini ed ovuli (cocchi)fritti appena colti, erano cibo da DeiFortunati. Se poi avvolti caldi nel lardo di Colonnata……..

In una primaverile caccia all’asparago stavo per posare il piede su una vecchia e grossa vipera che cercava di togliersi di dosso l’inverno arrotolata sulle zolle. La lentezza dell’animale vecchio e ancora semirinco da una temperatura non ancora adatta ma soprattutto la mano del mio amico Antonio C. che mi tirò per una spalla evitarono l’incidente. Ne restai parecchio turbato. Poco tempo prima, a Broni, ero stato al cinema con mia madre, proiettavano il film “le miniere di re Salomone. All’improvviso un grosso boa riempì lo schermo e l’urlo di mia madre la sala. Finii il film con le gambe sul sedile e per molte altre volte quella fu la mia posizione da cinema. Mi arresi più tardi all’evidenza che non vendevano biglietti ai serpenti ma i due episodi mi resero molto vulnerabile al riguardo. E con vergogna anche oggi.

 

Andar per nidi non significava andare a distruggere, ma a conoscere. Ci arrampicavamo sugli alberi accessibili e controllavamo quante e quale tipo d’uova il nido contenesse. Di solito 2 o 3, verdine, beige, bianche picchiettate di nero. Ora non ricordo a quale uccello corrispondessero, ma allora chiedevamo spiegazioni agli anziani, che sapevano tutto della natura circostante.

Scoprimmo che le uova sfiorate dalle nostre mani, non venivano più covate. Ogni volta una fogliolina nel nido, messa dai genitori, segnalava la contaminazione umana.

 

La Tanna era un torrentello che scorreva giù nella piana, da dove si vedeva salire la casa dei nonni. Era pescosa. Bastava una canna di quelle che ondeggiavano al vento, uno spago, un sughero per galleggiante e la fortuna di farci regalare un amo da qualche grande. Anche senza ami ci bastava un chiodino incurvato. I vermi abbondavano. Abboccavano carpe, anguille e gli spallotti, che scoprii in seguito chiamarsi Persico Sole. Non so se questo bel pesciolino sia andato in estinzione, so che non sfigurerebbe in un acquario al posto di certi costosi discoidi tropicali. Eran pieni di lische, ma nonna li cucinava per zio Alvano che mostrava di gradire. E gradiva anche i passeri in tegamino.

Ne abbattevo 2 o 3 al giorno con la carabina d’Alberto, e quando diventavano 6 o 7  finivano nel tegamino. Oggi, nel pentolino ci finirei io, cucinato da qualche animalista. Di quelli che aiutati dai media sollevano scandali e campagne per ogni animale abbandonato. Certo, un atto altamente riproverevole, grave e disumano. Dimenticando però di dare altrettanto risalto all’abbandono dei vecchietti e dei neonati nei cassonetti.  Pur sempre animali anch’essi! 

 

Quando in paese passava un contadino con la mucca tenuta per la cavezza, correvamo alla frazione vicina dov’era la Stazione Taurina. Correvamo attraverso sentieri nascosti e raggiungevamo la Stazione di Monta prima che qualcuno ci vedesse. Ci nascondevamo tra il sottobosco ed assistevamo curiosi.

 

I giovanotti che alla sera bevevano un birrino all’Appalto a volte ci prendevano di mira. Una sera ci raccontarono che per farci allungare il pipino dovevamo strofinarlo ben bene col latte di fico.

I fichi erano dappertutto, e colti rilasciavano subito la loro goccia bianca. Era buio e tre di noi sperimentarono subito. E subito corsero urlanti per il bruciore alla fontanella dove i giovanotti s’erano appostati, per farsi quattro risate alle nostre giovani spalle ingenue. Io, seppur con la mia voglia di crescere, fortunatamente fui scettico, essendo abituato alle prese in giro per le mie nordiche diversità.

 

Intanto Alberto si era fidanzato, ed io accettai di malagrazia l’intrusione di questa femmina che mi derubava di parte delle sue attenzioni. Lei forse intuendo la mia gelosia, mi coccolava stringendomi a se. E l’accettai soffocando in tante prosperose morbidezze. Per me allora una Valeria Marini d’oggi. Coi capelli cotonati ed il vestito a palloncino azzurro, a fiorellini, leggero e vaporoso.

                                                          

Era l’epoca in cui iniziavamo a nuotare in interminabili vasche serali.

Su e giù per l’unica strada del paese.

In quattro o cinque maschi partivamo dall’inizio, in fila per quattro o cinque.

Quattro o cinque ragazzine partivano dalla fine, sempre in fila.

 

C’incontravamo a metà, sotto gli occhi ben aperti e vigili delle donne sedute con la loro sedia impagliata sotto le stelle, al fresco della sera, profumata dal fieno dei pagliai, dalla resina dei cipressi, dal finocchio selvatico.    

Entrambi i gruppi rallentavano impercettibilmente.

Ed ognuna di loro aveva occhi per ognuno di noi.

Io li avevo solo per la figlia della postina.

 

Era l’epoca in cui stava concludendosi la mia fanciullezza.

 

  

Questo secondo polpettone lo dedico alle gioventù, alla mia, alla tua che mi leggi, a quella di tutti.

Ma che già bella di per se, non abbisognerebbe di ulteriori dediche o celebrazioni.

Lo dedico con tristezza, a quella dei ragazzini d’oggi.   Ricchi di play-station.   

Ricchi dell’automobile che li accompagna a scuola.   Ricchi di scarpe adatte ad ogni tipo di attività.

Tanto ricchi da potersi permettere di scoprire tutto, anche l’aspetto e la storia del finocchio selvatico,      collegandosi ad internet, seduti nella loro cameretta.

Ma tanto poveri nel non conoscerne il profumo.

 

…………………………presto ti accorgerai com’è facile farsi un’inutile software di scienza e vedrai che confuso problema è adoperare la propria esperienza................